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La nostra polenta, un bimbo e suo nonno

- 07/03/2024

Un bambino occhialuto appoggia il piede sul muro delle vecchie Colonie dei Frati Savonesi. Chissà quanti altri bambini prima di lui erano stati li a giocare, fare piccoli grandi progetti per il futuro. Chi voleva essere astronauta, chi progettare automobili per una marca importante. Lui era mano nella mano con suo nonno, questo gli bastava.
Stavano lì mentre tre anziani signori dallo sguardo serio pestavano, bastoni di legno stretti nelle mani, un impasto giallastro.
Tutti la chiamavano polenta, ma era una cosa ben diversa da tutte le polente che si potevano trovare in giro per la penisola con più piatti tipici del mondo.
Era a base di patate, uno dei prodotti che tutti i negozi locali vendevano con i cartelli scritti a mano che recitavano “le migliori”. Piccole, dolci, saporite. Magari da qualche altra parte ce ne potevano anche essere di migliori, ma per quel bambino occhialuto erano insuperabili. Quando restavano soli a casa con il nonno le facevano fritte, quasi di nascosto, ed era sempre una festa di granelli di sale e risate.
Poi c’era la farina, con tutto il lavoro che si portava dietro.
E ancora, una dose che ognuno faceva a proprio sentimento di farina di grano saraceno, un ricordo di tempi passati. Come quella torre un po’ diroccata che si osserva tornando al paese dalla strada statale, quando si viaggia dal mare verso casa. Il nonno gli aveva raccontato storie di tempi remoti, con saraceni da tenere a bada e guerrieri coraggiosi che difendevano la valle.
A un certo punto della lunga cottura avviene la magia, quegli ingredienti si mescolano con l’acqua delle sorgenti, quella buona, quella che se la prendi alla fontana ti fa cadere il dito da quanto è fredda.
Entrano in scena gli esperti della preparazione e la colpiscono forte, con un ritmo preciso, costante. Tum, tum, tum.
Il più anziano sa quando è il momento di smettere, quando non c’è più il rischio di trovare grumi, quando tutto è omogeneo.
Da qualche parte, mani sapienti avranno preparato il sugo che deve accompagnare le fette di polenta saracena. Qualcuno chiede il ragù, ogni volta che succede il bambino occhialuto sorride scuotendo la testa e il nonno rida. Loro lo sanno che c’è una sola versione di quel piatto che lo rende enciclopedico, irraggiungibile.
Il sugo bianco, panna, porri e funghi. Una bella cucchiaiata di Parmigiano grattugiato, e il gioco è fatto. Si è di fronte a sua maestà.
Ogni volta che d’estate veniva organizzata una polentata alle Colonie, il bambino e suo nonno erano sempre seduti ai tavolacci di legno, sulle panche, decretando se, rispetto all’anno precedente, i cuochi erano stati più o meno bravi a preparare quel piatto degli dei.
Gli anni sono passati, la festa di paese si è spostata anche da li, dopo che già in passato aveva peregrinato un po’ per le vie e le periferie del paese.
Ora c’è uno spazio apposta, molto organizzato, diverso.
La polenta è battuta da altri, sono cambiate le facce. Il bambino occhialuto è diventato grande, fatica troppo spesso a trovare il tempo di partecipare all’evento.
Ma ogni volta che può, ogni volta che passa da li, lo sguardo va a quel vecchio edificio, dove stava appoggiato al muro tanti anni prima. Ora è chiuso da un cancello arrugginito. La testa scuote, il sorriso non c’è stavolta. Tornerebbe, se in quel posto dalle mille storie di bambini rossi in volto per l’ennesima corsa tornasse quel ritmo preciso. Tum, tum, tum. Darebbe qualsiasi cifra per ascoltare quel suono, una volta ancora, mano nella mano con suo nonno, con i capelli bianchi più importanti della sua giovinezza.

Scritto da Adriano Fedi

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