282 visualizzazioni 7 min 0 Commenti

Come le ciliegie

- 25/05/2025

Matteo non era mai stato bravo a organizzare la logistica famigliare, ma in fin dei conti il compito che si era auto assegnato era facile e, d’accordo con i suoi genitori, aveva deciso di fare quel lavoretto in pochi giorni a inizio settimana.

Doveva solo svuotare la casa di nonna Erminia. Un compito semplice, almeno in teoria. In pratica significava decidere cosa buttare di una vita intera senza sapere bene cosa tenere per rispettarla e per potersi riservare il lusso di conservare ricordi preziosissimi, almeno per lui.

La nonna era viva e arzilla, almeno nel fisico. Ricoverata in una struttura nel suo adorato comune più bello del mondo, una di quelle strutture che funzionano bene e che odorano di pulito e minestrina con il formaggino e la pastina. Aveva iniziato a chiamarlo “signore” l’ultima volta che lui era andato a trovarla, ringraziandolo, dandogli del lei, quando l’aveva fatta entrare nella sua stanza tenendole la porta.

“Si figuri, signora” le aveva risposto lui, incerto se piangere o sorridere.

Aveva sorriso. Perché piangere, in fondo, era roba da stomaci vuoti. Ma era stato un bel pugno nello stomaco, considerando che quella piccola signora paffuta era colei che, per aiutare i suoi genitori, entrambi lavoratori, lo aveva cresciuto prima andando lei a casa sua e poi ospitandolo un numero infinito di volte nella casa dei nonni, il suo posto preferito da bambino.

La cucina della casa al Ponte, questa la frazione del comune dove era ubicata, era uguale a vent’anni prima, solo più piccola. Il tempo aveva il potere straordinario di far rimpicciolire tutto, tranne i rimpianti.

Sopra il frigorifero c’erano ancora un calendario del 2011, l’anno in cui Matteo si era sposato, le bottiglie vuote di cedrata Tassoni che Erminia conservava “perché un giorno potrebbero servire”. Quel giorno, ovviamente, non era mai arrivato, ma Matteo aveva sorriso ritrovandole lì. E anche il muro verde, di un verde che oggi si direbbe quasi fluo, lo aveva fatto ridere un po’, non si era mai spiegato come il nonno avesse potuto scegliere un colore del genere per una cucina che aveva visto la sua ultima ristrutturazione nel 1988.

Tra un mortaio in marmo, un sacchetto di mollette, una torcia a pile, utilissima durante un lungo black-out quando Matteo era in prima media, e un grembiule piegato e ingiallito dal tempo, la ricerca era un caleidoscopio di ricordi.

Matteo, però, ad un certo punto trovò un quaderno dalla copertina blu, rigida, storta. Lo aprì per curiosità, o forse per noia, aspettandosi le solite bollette o i numeri di telefono di parenti e amici.

Ma alla terza pagina, con una calligrafia tremolante e familiare che per lui era assolutamente inconfondibile, la stessa con cui lei faceva le parole incrociate e firmava qualche volta il suo diario, c’era scritta una ricetta che lui credeva non esistesse su carta: “Le mie polpette”.

Matteo aveva trascorso tutta la sua vita, e continuava a farlo ogni volta che capitava l’occasione, parlando delle polpette di sua nonna. Erano inconfondibili, lui le mangiava avidamente, erano una di quelle cose per le quali la sua rigida educazione, il preoccuparsi che vi fosse pietanza a sufficienza per tutti quelli al tavolo, andava a farsi benedire: sembrava impazzire davanti a quelle meraviglie e le mangiava come si mangiano le ciliegie, via una sotto l’altra.

C’era tutto in quella ricetta, c’erano tutti i passaggi che lui ricordava perfettamente: rivedeva le mani di nonna Erminia che bagnavano il pane nel latte e poi lo strizzavano bene, aggiungendolo alla carne macinata, a maggiorana, tanto bel parmigiano, come diceva lei ogni volta, sale, pepe. E basta. Si, la nonna non metteva uova e questo era da sempre un motivo di discussione e di presa in giro tra Matteo e sua mamma che, senza l’aggiunta di questo ingrediente, tribolava a farle stare assieme. Solo la nonna sembrava riuscire a farle in quel modo, o almeno questo era quello che tutti volevano fargli credere da bambino, per lasciare quel velo di magia su quel piatto che lui adorava.

Ma, a ben vedere, aveva ragione lui, nella ricetta scritta, carta canta, l’uovo non c’era. 

Aveva rialzato lo sguardo e forse gli occhi ora erano un tantino lucidi, mettere insieme quell’ambiente famigliare, dove giocava, mangiava, faceva i compiti, e che era il suo mondo da bambino, con quello specifico ricordo era una bella botta. Gli era sembrato per un attimo di rivedere quella donnina paffuta, che ora gli arrivava alla spalla, tutta china sui suoi novantanove anni, con la vitalità di un tempo a muoversi tra il tavolo e i fornelli preparando le sue polpette. Gli era sembrato per un attimo di risentire l’odore di quel sughetto che le avvolgeva, di sentirlo sobbollire e vedere qualche schizzetto di pomodoro sul coperchio di quella vecchia cucina a gas. Gli era sembrato per un attimo di essere seduto lì in attesa della cena, con suo nonno pronto a rientrare a casa dalle sue mille commissioni, e lui con l’immancabile costruzione di Lego nelle mani a immaginare chissà qualche avventura.

Oggi Matteo fa le polpette per la sua famiglia. Ma ci mette l’uovo, perché senza riusciva a farle solo sua nonna.

Scritto da Adriano Fedi

Non ci sono commenti.

Solverwp- WordPress Theme and Plugin