
Il caldo di quella notte era un turbine di zanzare. Uno schiaffo sulla pelle dopo l’altro, il sudore che macchiava le lenzuola bianche.
Piero era andato a dormire dopo qualche birra al bar Roma, l’aria fresca che si era goduto sulla panchina di legno appena fuori dal locale era un lontano ricordo. I discorsi della serata erano stati i soliti, le villeggianti carine, Andrea che si era ribaltato con la Y10 turbo appena regalata da suo padre. Era un ragazzo allegro, Piero.
Viveva in una mansarda tormentata dal caldo dell’estate, come dal freddo dell’inverno. Era quello che poteva permettersi a ventidue anni, con un lavoro precario nell’azienda farmaceutica appena fuori dal centro del paese. Gli andava bene così, un sorriso scanzonato per tutto.
Era riuscito a prendere sonno e il continuo rigirarsi nel letto lo aveva portato ad un sogno turbolento. C’era lui ragazzino, dodici anni, appena dieci prima di quella notte.
Il sogno filava spedito come un ricordo raccontato a un amico. Lui e un gruppo di suoi coetanei era entrato nell’albergo abbandonato, quel mucchio di stucchi grattati dal tempo e di fantasmi del passato. Ci andavano spesso, sfidando il divieto più o meno esplicito di entrare nella struttura, ritenuta pericolante. Ogni tanto trovavano le tracce di un pezzo di intonaco staccato, qualche segno di ragazzi più grandi che erano entrati a fare serata.
Nel sogno, Piero stava entrando nelle cucine dell’albergo. Camminava prestando attenzione alle botole disseminate sul pavimento, si sfidava con gli amici per vedere chi fosse il più temerario, cercando gli angoli e i corridoi più bui dove addentrarsi. Le ragazze erano tutte un gridolino, ogni volta che un piede calpestava una piastrella mal fissata, o un pezzetto di legno.
Le ringhiere in legno scuro erano in bella mostra, incorniciando le maestose scale. L’ascensore era anchilosato dall’inutilizzo.

Il telefono aveva squillato. Una, due, tre volte, con quel suono che spaccava a metà il silenzio della mansarda.
Piero era trasalito, si era trovato in un istante catapultato dal vecchio salone da ballo abbandonato del Miramonti a camera sua, cercando a tastoni gli occhiali da vista.
Era corso a rispondere, la voce impastata da birre e sonno.
«Piero, datti una mossa, sta bruciando il Miramonti», la voce di Marco arrivava dalla sede dei Vigili del Fuoco volontari di Garessio e tuonava nella cornetta. Piero era un volontario, già da qualche anno, gli piaceva dare una mano alla comunità. Ma in quel momento aveva avuto bisogno di un pizzico sul braccio per capire che il sogno era finito e che quella frase terribile era la realtà.
Si era vestito in fretta e furia, era corso a prendere il PX che aveva comprato col primo stipendo l’anno prima. Era bianca e senza un graffio, la trattava come una reliquia. L’aveva accesa con la pedivella e senza pensarci si era fiondato a rotta di collo verso la parte alta del paese, il Borgo. Su una piccola collina si ergeva maestoso il Miramonti, inutilizzato da decenni ma con una propria vita che tutti gli riconoscevano: la storia di quel posto era piena di leggende, avvenimenti raccontati dai vecchi del paese, fatti di storia fascista e partigiana, di un’epoca lontana ma che vicino alle sue pietre pareva così attuale.
Salendo la strada lastricata del Poggiolo aveva iniziato a sentire l’odore acre del legno che brucia, una luce arancione ondeggiava spettrale sopra i tetti delle case. Arrivato sulla piazza che anticipava il viale alberato, la scena aveva immobilizzato Piero. Per poco non andava a sbattere nel basso muretto in pietra che conduceva alla casa degli Alpini. Aveva appoggiato malamente la Vespa a bordo strada, sul lato opposto rispetto alla salita che portava al Miramonti. Mai avrebbe trattato così quel mezzo che venerava, ma era come in trance.
Si era immediatamente avvicinato ai colleghi e amici volontari che, con i mezzi a disposizione, stavano già lottando con le fiamme. Quattro lati del tetto bruciavano con il rosso e l’arancio del fuoco che sembravano voler arrivare al cielo.
Marco aveva detto a Piero di mettersi la tuta, era nel camion. In pochi attimi Piero era a lottare, l’acqua gettata con tutta la pressione a disposizione verso i focolai. Tutti avevano una paura fottuta che le fiamme arrivassero agli alberi poco sotto, che potessero espandersi fuori dall’albergo, c’erano tante case vicine. Piero tremava. Per lui quella paura, che condivideva, era mischiata con lo sconforto di vedere, inesorabilmente, crollare parti dell’albergo. Lui quella struttura la amava, la rispettava, sentiva un’attrazione quasi mistica verso il Miramonti.
Il tetto stava scomparendo nel fumo che toglieva il fiato. Stucchi, pitture, porte, quelle meravigliose scale. Tutto si stava sbriciolando, mentre il vento non aiutava nelle operazioni.
Piero non si era nemmeno reso conto dell’arrivo di altri vigili del fuoco, di altri volontari, il sole stava sorgendo e le fiamme piano piano stavano scomparendo.
Appoggiato al camion, stremato, nero in volto, ustionato nella pelle e nei pensieri aveva iniziato a capire il dramma, aveva ringraziato assieme agli altri i colleghi di Ceva e di Cuneo che erano venuti in soccorso.
La Vespa era graffiata su un lato, piena di pulviscolo nero. Un mondo di curiosi, di parole, gli stava attorno. Tutti commentavano l’accaduto. «Saranno stati dei ragazzi, una bravata», «vedrai che c’entra l’assicurazione», «che disastro», erano le voci che gli rimbalzavano addosso.
Un gruppo di signore del Borgo si erano date da fare in quelle prime ore del mattino per dare un po’ di conforto a tutti quei ragazzi che si erano impegnati per domare le fiamme, avevano preparato dei panini, alcuni con la frittata della sera prima, altri con il prosciutto comprato da Mario il pomeriggio precedente, senza immaginare cosa sarebbe capitato.
Piero prese distrattamente uno dei sacchetti di carta appena portati da quelle signore con dentro un panino con la frittata di ortiche, in qualsiasi altro momento sarebbe impazzito di gioia addentando quella prelibatezza. Le ortiche, sbollentate e poi saltate in padella con una noce di burro, erano la farcitura che preferiva in assoluto per le frittate che anche sua madre preparava: quel sapore erbaceo, leggermente amaro, combinato con tutto il parmigiano che lei era solita aggiungere al composto, lo facevano impazzire.
Quella mattina, però, la addentò senza apprezzarla, accompagnata da un sorso d’acqua che gli gocciolò in parte sui vestiti.
Il Miramonti era ancora caldo, lui era diventato adulto.

Scritto da Adriano Fedi